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14 Giugno 2024

Pinkwashing: quando il marketing investe nella parità di genere ma senza impegno

Pinkwashing: quando il marketing investe nella parità di genere ma senza impegno

Negli ultimi anni, il termine “pinkwashing” ha guadagnato crescente attenzione nel dibattito pubblico, suscitando discussioni accese e polarizzate.

Ma cosa si intende esattamente con questa espressione e perché sta diventando così rilevante?

Così come la più nota “greenwashing” in ambito ambientale, anche la parola “pinkwashing” deriva dall’unione di due termini inglesi: “pink”, colore rosa, che storicamente indica il mondo femminile, e “whitewashing” che tra i significati più comuni ha quelli di imbiancare, ripulire, mascherare, tutti termini che indicano l’atto di coprire o nascondere qualcosa.

Il “pinkwashing” si riferisce all’uso opportunistico, per scopi di vendita e marketing, dei simboli e temi legati al movimento femminista, e alla parità di genere e inclusione più in generale, da parte di aziende e organizzazioni per migliorare la propria immagine, senza però un sostegno reale e coerente, e senza apportare un vero cambiamento nelle condizioni delle donne. 

Il termine è stato usato per la prima volta all’inizio degli anni 2000 da una portavoce della Breast Cancer Association (BCA) negli Stati Uniti per protestare contro tutte quelle aziende che esponevano il pink ribbon, il fiocco rosa logo della campagna per la lotta contro il tumore al seno, solo a scopi commerciali e per promuovere la propria immagine, senza offrire un reale sostegno alla causa. La dura presa di posizione della BCA portò alla campagna “Think Before You Pink” che chiedeva, e chiede tutt’ora, maggiore trasparenza e responsabilità da parte delle aziende e incoraggiava i consumatori a porsi più domande, avendo un approccio più critico, sui prodotti con il fiocco rosa.  

Nel corso degli anni ci sono stati vari esempi di pinkwashing: un esempio è rappresentato da Avon, nota azienda di cosmetici, che nel 2001 ha lanciato la campagna “Kiss Goodbye to Breast Cancer” promuovendo la vendita di rossetti il cui ricavato sarebbe stato devoluto alla lotta contro il tumore al seno.

Si è poi scoperto che i rossetti in vendita contenevano delle sostanze cancerogene, e questo ha portato all’azienda non pochi problemi di immagine. 

Altro caso è quello di KFC, nota catena di fast-food, che nel 2010 ha promosso una campagna di raccolta fondi a favore di Komen, associazione che si occupa della lotta contro il tumore al seno, colorando di rosa i propri secchielli per il cibo.

La campagna, dal titolo “Buckets For The Cure”, ha raccolto 4 milioni di dollari, ma i proventi non erano tutti destinati all’associazione; questa, infatti, aveva ricevuto una donazione, di molto inferiore e non correlata alle vendite, già all’inizio della campagna pubblicitaria.

È stato quindi evidente che si trattò solo di una strategia di marketing e non di concreto impegno sociale

Farsi portavoce di alcune importanti battaglie, come quelle per la parità di genere e l’inclusione, può portare indubbiamente a vantaggi da un punto di vista economico, il prodotto “pink” vende di più perché ritenuto più etico e responsabile, e reputazionale, perché le aziende che si mostrano impegnate, aperte ed inclusive guadagnano la fiducia di numerosi consumatori, migliorando così la propria immagine.

Campagne di marketing di questo tipo, che sfruttano l’onda emotiva dei consumatori solo a scopo di lucro, spesso però si rivelano dannose nel lungo periodo.

Infatti una volta che i consumatori percepiscono che un’azienda utilizza e mette in pratica azioni di “pinkwashing”, si genera un forte senso di sfiducia e cinismo, che porta ad una importante perdita di credibilità, inizialmente guadagnata, e danneggia irreparabilmente la reputazione dell’azienda, generando di conseguenza un calo delle vendite. 

Il “pinkwashing” rappresenta, dunque, un tema complesso, e spesso controverso, nel dibattito pubblico e commerciale contemporaneo.

Questo fenomeno, nato per attirare clienti e vendere di più, può alla lunga ledere e offuscare i veri bisogni e le cause che invece dichiara di sostenere. Se da un lato, infatti, attira l’attenzione su tematiche importanti, contribuendo alla loro diffusione, visibilità e accettazione, dall’altro rischia di ridurre tali questioni a mere strategie di marketing, privandole del loro reale significato. 

È fondamentale, invece, che il supporto alle cause della parità di genere e dell’inclusione sia autentico e sincero, accompagnato da azioni concrete, e non solo da slogan o iniziative temporanee.

Solo attraverso un impegno reale e sostenibile, infatti, si può sperare di ottenere un vero progresso verso l’uguaglianza e il rispetto dei diritti di tutte le persone.

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